[:en]Siena, 28 giugno 2019, Assemblea Generale dei Soci STOREP
Ricordo di Giorgio Lunghini
di Anna Carabelli (Università del Piemonte Orientale)
Sono qui a ricordare un maestro e l’ottica che seguirò sarà quella di un’allieva per rendergli un grazie finale. E sarà un ricordo personale, come sono tutte le relazioni. Ci sono rapporti pubblici e relazioni personali. Le relazioni personali sono frutto di molte cose non dette ma sentite. Devo ammettere che non sono sempre stata un’allieva ubbidiente, come quando, io appena laureata, Giorgio Lunghini mi ha suggerito di andare ad Ancona da Giorgio Fuà, che egli stimava, e di occuparmi così di economia applicata. Non mi ricordo bene che cosa allora gli ho risposto ma non avevo nessuna intenzione di andare da Fuà, come poi è avvenuto. Né di occuparmi di econometria e di entrare al Servizio Studi di Banca d’Italia come tutti i vincitori della Borsa Stringher allora facevano. Ma sono stata un’allieva diligente nel seguire alcune indicazioni del metodo economico da lui usato.
Chi come me è stata sua studente in Bocconi ha imparato a coniugare la storia del pensiero con l’analisi economica dettagliata delle variabili macroeconomiche. Erano i tempi di Sraffa e di “Produzione di merci a mezzo di merci”, della discussione sulla misurazione del capitale (se il capitale è misurabile, se è malleabile, se c’è un’unità fisica di misura del capitale). La mia tesi di laurea in Bocconi con lui è stata una tesi su Sraffa e non su Keynes come molti si aspetterebbero, sulle merci base e non base, sulla merce composita, sul problema della misura e in particolare se Sraffa usi una misura smithiana o ricardiana del valore, se usi il lavoro comandato di Smith, rigettando la misura ricardiana del valore-lavoro contenuto.
Nell’ultima email che gli ho scritto in accompagnamento a un mio lavoro sul confronto tra i problemi della misurazione in Sraffa e in Keynes, ora pubblicato, dopo un lungo periodo di gestazione, negli Annals of the Fondazione Luigi Einaudi gli ho ricordato l’antica questione sollevata nella mia tesi di laurea e il mio maturo tentativo di dare una risposta a quella domanda giovanile dopo tanti anni. La mia risposta era che è meglio, o forse meno peggio, una misura smithiana del valore in termini di lavoro comandato con il salario monetario come misuratore, una scelta teorica che trova in Keynes, che si occupa di una economia monetaria di produzione, un pieno svolgimento teorico.
L’ultima email che gli ho scritto martedì 6 novembre 2018, mandandogli questo mio lavoro su Sraffa e Keynes era la seguente:
Caro Giorgio, come va? Ti mando le bozze di un mio articolo scritto per gli Annali della Fondazione Einaudi (ci sono alcune piccole correzioni nella bibliografia). È una specie di punto di arrivo della mia vecchia tesi (Bocconi) su Sraffa e sulla merce composita. Io vorrei fare un salto da te per trovarti, quando tu puoi. A me andrebbero bene il 26, 27 o 28 di novembre o anche altri giorni. Un caro saluto, Anna
Mi ha risposto il giorno dopo, il 7 novembre, scrivendo
Cara Anna, ti vedrei, e ti vedrò, con grande piacere, ma per novembre non posso prendere impegni: i miei medici mi impongono severi programmi di manutenzione, tuttavia niente di grave. Sentiamoci dunque verso fine mese, e intanto un saluto affettuoso anche da Anna.
Giorgio
L’ho richiamato al telefono il 4 dicembre e mi ha scritto un messaggio di risposta (penso che fosse Anna, sua moglie, a rispondermi): “Adesso non posso rispondere al telefono. Per favore chiamami più tardi”. Quel giorno non ho richiamato più tardi e sono poi partita per un viaggio e l’ho richiamato al telefono solo molti giorni dopo, al mio ritorno dal viaggio, e, per una coincidenza tragica, quando la sua situazione era già disperata.
Era un maestro severo, di poche parole nei confronti degli studenti, almeno così allora io lo avvertivo. Distaccato. Incuteva rispetto e poca confidenza con i suoi allievi. Se lo paragono ai miei rapporti con i miei studenti oggi (certo erano altri tempi!) la distanza tra lui professore ed io allieva appare siderale. Credo di avergli dato del lei fino a pochi anni fa. Lo informavo, ogni tanto, non molto spesso, dei miei interessi, costanti su Keynes ma mutevoli nell’oggetto specifico. Ma non c’è mai stato uno scambio vicendevole. I rapporti sono sempre stati gerarchici, da maestro ad allieva.
Chi come me è stata sua studente ha imparato a distinguere la produzione dalla distribuzione del reddito, la produzione del valore-lavoro rispetto al valore utilità che in Bocconi allora dominava. Non mi ricordo il titolo delle sue lezioni in Bocconi. Forse le teorie alternative della distribuzione oppure un titolo più vago. Mi ricordo di avere anche usato il libro di Tiberi sulle teorie della distribuzione del reddito. Ma mi ricordo molto bene il metodo da lui seguito. Un’attenta disamina storica dai fisiocratici a Keynes, attraverso Smith, Ricardo, Say, Marx e i marginalisti. Un Keynes di allora, ovviamente diverso da quello che ha poi caratterizzato il Lunghini maturo, analista delle crisi economiche e del Keynes che oggi conosciamo. Troppe riletture personali di Keynes hanno anche oscurato o forse annacquato la mia fonte originaria di Keynes. Il Keynes di Lunghini che ricordo bene è il risultato delle sue riletture più recenti di Keynes.
Come ho detto, non ricordo il Keynes di allora, immagino però che fosse un Keynes “keynesiano bastardo”. Era impossibile sfuggire da questa lettura dominante. Ma ricordo molto bene tutto il resto. Forse perché la mia lettura di alcuni classici, ad esempio dei fisiocratici, si è fermata lì, dove lui mi ha introdotto. Mi ricordo le sue splendide lezioni iniziali sui fisiocratici e su Quesnay, autori allora a me del tutto sconosciuti, sul modello circolare del reddito-spesa che può interrompersi in ogni punto creando crisi di sovrapproduzione o di insufficienza di domanda, e rompersi, in particolare, in qualunque anello del processo di produzione-spesa. Mi ricordo i fisiocratici da lui spiegati come un modello di interdipendenza settoriale sul modello input-output di Leontief, con la mia prima spiegazione della creazione del surplus, del sovrappiù in agricoltura, una prima descrizione del modello grano-grano di Ricardo del Saggio sul profitto del 1815.
E poi lo Smith della divisione del lavoro, con la metafora degli spilli, e poi il Ricardo-Sraffa del modello a due settori degli schemi di riproduzione. E la mia scoperta del valore, dell’origine del valore e della misura del valore. La differenza fondamentale tra lavoro contenuto e lavoro comandato.
E poi le sue lezioni su Marx e il plusvalore e la teoria dello sfruttamento. E la sua spiegazione che il capitalismo, secondo Marx, progredisce e si trasforma, proprio attraverso le crisi economiche. Crisi economiche che allora non comprendevo bene e di cui mai avevo sentito parlare nelle altre mie lezioni in Bocconi. Ma poi, insegnando io Economia monetaria (devo dire che non ho mai insegnato storia del pensiero in tutta la mia vita di docente e neanche ora che continuo a insegnare con un contratto esterno) di quelle crisi da lui descritte ne ho vissute e raccontate così tante, tante crisi del capitalismo con forme ogni volta diverse. Dalla crisi del dollaro del 15 agosto 1971 (mi ricordo che quel giorno ero ad Edimburgo e che quel giorno ho comprato il Financial Times da un giornalaio di Princess Street) alle crisi del Sudamerica, alla crisi asiatica (mi ricordo in particolare quella del bath tailandese), al Messico, alla crisi giapponese, alla crisi dei tecnologici, all’11 settembre fino alla grande e lunga crisi del 2007 legata ai mutui sub prime e poi la crisi del debito dei paesi europei PIIGS e quella dei titoli italiani del 2011, una nuova lunga e grande crisi del capitalismo simile a quella degli anni ‘20-30 del secolo scorso, ma di nuovo sempre in una forma diversa.
Sulla crisi economica e sulle politiche per fronteggiare la crisi, ricordo un passo fondamentale che Giorgio Lunghini scrive in “La crisi finanziaria, dai mutui sub-prime al rischio di crisi per l’euro. Le origini, gli effetti, le proposte di intervento in Italia, in Europa, nel mondo”. Associazione per il Rinnovamento della Sinistra e dalla Fondazione Di Vittorio, CNEL, 12 luglio 2012:
È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez-faire.
Il focus dell’analisi della crisi da parte di Giorgio Lunghini riguarda il ruolo centrale svolto dalla teoria economica, con il ritorno al laissez-faire e al neoliberismo (attraverso il monetarismo di Hayek; le critiche ai Keynesiani bastardi più che a Keynes che, secondo Lunghini, ricordo, non è un Keynesiano).
Secondo Giorgio Lunghini, vi è un legame tra teoria economica e politiche economiche che mostra anche una continuità tra la Treasury View del tempo di Keynes, al Washington Consensus del FMI e al recente Bruxelles Consensus.
Egli scrive:
La convenzione su cui si è retto sino a ieri l’equilibrio capitalistico, condivisa dai responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali, dai consigli di amministrazione delle banche e delle grandi imprese, e dagli editorialisti più autorevoli, si può riassumere in queste quattro proposizioni:
- L’economia di mercato è il miglior sistema che si possa concepire: anche grazie alla finanza, essa racchiude in sé le chiavi del progresso materiale e del dinamismo economico e sociale.
- Perché possa dare tutti i suoi benefici, l’economia di mercato deve essere opportunamente gestita e regolata.
- Questa regolazione deve sottostare a due princìpi: condurre una politica monetaria che produca la stabilizzazione dei prezzi; ricercare almeno il pareggio, e se possibile l’attivo, del bilancio pubblico.
- Privilegiare le riforme strutturali che incentivano il lavoro, riducendo i redditi distribuiti dal sistema di previdenza e assistenza sociale.
A queste quattro proposizioni, ne aggiungo una quinta: la distribuzione del reddito e della ricchezza è il portato dei meriti e dei talenti individuali, e dunque non va modificata, se non a favore dei profitti. … Al formarsi di questa convenzione, hanno dato un contributo determinante gli economisti ortodossi (tanto gli economisti teorici, quanto gli econometrici)
(G. Lunghini, “La Teoria generale e i keynesiani: un’eredità giacente”, Accademia nazionale dei Lincei, Convegno internazionale “Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia”, 11 e 12 marzo 2009).
Vorrei tornare, per concludere, alla sua rilettura di Keynes. Il suo Keynes che ricordo e che vorrei qui ricordare è il risultato delle sue riletture più recenti di Keynes.
Secondo Giorgio Lunghini, la Teoria generale di Keynes è stata tradita. Quello che conta in Keynes non sono le politiche fiscali in deficit o lo scavare buche per poi riempirle (un chiaro paradosso da parte di Keynes per mostrare l’inazione da parte delle istituzioni pubbliche). È il Keynes della moneta e delle crisi del capitalismo.
Egli scrive:
La soluzione del problema economico va dunque cercata altrove, non tanto nelle politiche ‘keynesiane’ illustrate nei manuali, magari mediante lo schema IS-LM, o invocate dai neoclassici temporaneamente convertiti, ma in un disegno di politica economica e sociale che si ispiri al capitolo 24 della Teoria generale, sulla Filosofia sociale verso la quale la Teoria generale potrebbe condurre.
(G. Lunghini, “La Teoria generale e i keynesiani: un’eredità giacente”, Accademia nazionale dei Lincei, Convegno internazionale “Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia”, 11 e 12 marzo 2009).
La lettura di Keynes da parte di Giorgio Lunghini si focalizza sulla connessione tra domanda effettiva e conoscenza incerta.
Egli scrive:
In letteratura, e soprattutto nei libri di testo, spesso si discute di quale sia la vera innovazione analitica presente nella Teoria generale: se l’innovazione consista nel principio della domanda effettiva, oppure nella determinazione monetaria del tasso di interesse. La discussione è oziosa, poiché entrambe le categorie, e dunque l’intera Teoria generale, piaccia o non piaccia, e ai più non piace, hanno una fondazione comune, che per brevità e provvisoriamente si può definire di ordine psicologico. Un approccio, questo, guardato con sospetto non soltanto dagli economisti neoclassici cui si indirizza la critica keynesiana, ma anche da molti economisti keynesiani e post-keynesiani. Gli economisti – in generale – preferiscono il ragionamento deduttivo e deterministico.
Giorgio Lunghini ci ha lasciato una grande eredità sia sul metodo da usare in economia che sui contenuti dell’economia. Un’analisi che si deve focalizzare sulla teoria che spieghi le crisi economiche. Questa è un’eredità pesante da portare.
[:it]Siena, 28 giugno 2019, Assemblea Generale dei Soci STOREP
Ricordo di Giorgio Lunghini
di Anna Carabelli (Università del Piemonte Orientale)
Sono qui a ricordare un maestro e l’ottica che seguirò sarà quella di un’allieva per rendergli un grazie finale. E sarà un ricordo personale, come sono tutte le relazioni. Ci sono rapporti pubblici e relazioni personali. Le relazioni personali sono frutto di molte cose non dette ma sentite. Devo ammettere che non sono sempre stata un’allieva ubbidiente, come quando, io appena laureata, Giorgio Lunghini mi ha suggerito di andare ad Ancona da Giorgio Fuà, che egli stimava, e di occuparmi così di economia applicata. Non mi ricordo bene che cosa allora gli ho risposto ma non avevo nessuna intenzione di andare da Fuà, come poi è avvenuto. Né di occuparmi di econometria e di entrare al Servizio Studi di Banca d’Italia come tutti i vincitori della Borsa Stringher allora facevano. Ma sono stata un’allieva diligente nel seguire alcune indicazioni del metodo economico da lui usato.
Chi come me è stata sua studente in Bocconi ha imparato a coniugare la storia del pensiero con l’analisi economica dettagliata delle variabili macroeconomiche. Erano i tempi di Sraffa e di “Produzione di merci a mezzo di merci”, della discussione sulla misurazione del capitale (se il capitale è misurabile, se è malleabile, se c’è un’unità fisica di misura del capitale). La mia tesi di laurea in Bocconi con lui è stata una tesi su Sraffa e non su Keynes come molti si aspetterebbero, sulle merci base e non base, sulla merce composita, sul problema della misura e in particolare se Sraffa usi una misura smithiana o ricardiana del valore, se usi il lavoro comandato di Smith, rigettando la misura ricardiana del valore-lavoro contenuto.
Nell’ultima email che gli ho scritto in accompagnamento a un mio lavoro sul confronto tra i problemi della misurazione in Sraffa e in Keynes, ora pubblicato, dopo un lungo periodo di gestazione, negli Annals of the Fondazione Luigi Einaudi gli ho ricordato l’antica questione sollevata nella mia tesi di laurea e il mio maturo tentativo di dare una risposta a quella domanda giovanile dopo tanti anni. La mia risposta era che è meglio, o forse meno peggio, una misura smithiana del valore in termini di lavoro comandato con il salario monetario come misuratore, una scelta teorica che trova in Keynes, che si occupa di una economia monetaria di produzione, un pieno svolgimento teorico.
L’ultima email che gli ho scritto martedì 6 novembre 2018, mandandogli questo mio lavoro su Sraffa e Keynes era la seguente:
Caro Giorgio, come va? Ti mando le bozze di un mio articolo scritto per gli Annali della Fondazione Einaudi (ci sono alcune piccole correzioni nella bibliografia). È una specie di punto di arrivo della mia vecchia tesi (Bocconi) su Sraffa e sulla merce composita. Io vorrei fare un salto da te per trovarti, quando tu puoi. A me andrebbero bene il 26, 27 o 28 di novembre o anche altri giorni. Un caro saluto, Anna
Mi ha risposto il giorno dopo, il 7 novembre, scrivendo
Cara Anna, ti vedrei, e ti vedrò, con grande piacere, ma per novembre non posso prendere impegni: i miei medici mi impongono severi programmi di manutenzione, tuttavia niente di grave. Sentiamoci dunque verso fine mese, e intanto un saluto affettuoso anche da Anna.
Giorgio
L’ho richiamato al telefono il 4 dicembre e mi ha scritto un messaggio di risposta (penso che fosse Anna, sua moglie, a rispondermi): “Adesso non posso rispondere al telefono. Per favore chiamami più tardi”. Quel giorno non ho richiamato più tardi e sono poi partita per un viaggio e l’ho richiamato al telefono solo molti giorni dopo, al mio ritorno dal viaggio, e, per una coincidenza tragica, quando la sua situazione era già disperata.
Era un maestro severo, di poche parole nei confronti degli studenti, almeno così allora io lo avvertivo. Distaccato. Incuteva rispetto e poca confidenza con i suoi allievi. Se lo paragono ai miei rapporti con i miei studenti oggi (certo erano altri tempi!) la distanza tra lui professore ed io allieva appare siderale. Credo di avergli dato del lei fino a pochi anni fa. Lo informavo, ogni tanto, non molto spesso, dei miei interessi, costanti su Keynes ma mutevoli nell’oggetto specifico. Ma non c’è mai stato uno scambio vicendevole. I rapporti sono sempre stati gerarchici, da maestro ad allieva.
Chi come me è stata sua studente ha imparato a distinguere la produzione dalla distribuzione del reddito, la produzione del valore-lavoro rispetto al valore utilità che in Bocconi allora dominava. Non mi ricordo il titolo delle sue lezioni in Bocconi. Forse le teorie alternative della distribuzione oppure un titolo più vago. Mi ricordo di avere anche usato il libro di Tiberi sulle teorie della distribuzione del reddito. Ma mi ricordo molto bene il metodo da lui seguito. Un’attenta disamina storica dai fisiocratici a Keynes, attraverso Smith, Ricardo, Say, Marx e i marginalisti. Un Keynes di allora, ovviamente diverso da quello che ha poi caratterizzato il Lunghini maturo, analista delle crisi economiche e del Keynes che oggi conosciamo. Troppe riletture personali di Keynes hanno anche oscurato o forse annacquato la mia fonte originaria di Keynes. Il Keynes di Lunghini che ricordo bene è il risultato delle sue riletture più recenti di Keynes.
Come ho detto, non ricordo il Keynes di allora, immagino però che fosse un Keynes “keynesiano bastardo”. Era impossibile sfuggire da questa lettura dominante. Ma ricordo molto bene tutto il resto. Forse perché la mia lettura di alcuni classici, ad esempio dei fisiocratici, si è fermata lì, dove lui mi ha introdotto. Mi ricordo le sue splendide lezioni iniziali sui fisiocratici e su Quesnay, autori allora a me del tutto sconosciuti, sul modello circolare del reddito-spesa che può interrompersi in ogni punto creando crisi di sovrapproduzione o di insufficienza di domanda, e rompersi, in particolare, in qualunque anello del processo di produzione-spesa. Mi ricordo i fisiocratici da lui spiegati come un modello di interdipendenza settoriale sul modello input-output di Leontief, con la mia prima spiegazione della creazione del surplus, del sovrappiù in agricoltura, una prima descrizione del modello grano-grano di Ricardo del Saggio sul profitto del 1815.
E poi lo Smith della divisione del lavoro, con la metafora degli spilli, e poi il Ricardo-Sraffa del modello a due settori degli schemi di riproduzione. E la mia scoperta del valore, dell’origine del valore e della misura del valore. La differenza fondamentale tra lavoro contenuto e lavoro comandato.
E poi le sue lezioni su Marx e il plusvalore e la teoria dello sfruttamento. E la sua spiegazione che il capitalismo, secondo Marx, progredisce e si trasforma, proprio attraverso le crisi economiche. Crisi economiche che allora non comprendevo bene e di cui mai avevo sentito parlare nelle altre mie lezioni in Bocconi. Ma poi, insegnando io Economia monetaria (devo dire che non ho mai insegnato storia del pensiero in tutta la mia vita di docente e neanche ora che continuo a insegnare con un contratto esterno) di quelle crisi da lui descritte ne ho vissute e raccontate così tante, tante crisi del capitalismo con forme ogni volta diverse. Dalla crisi del dollaro del 15 agosto 1971 (mi ricordo che quel giorno ero ad Edimburgo e che quel giorno ho comprato il Financial Times da un giornalaio di Princess Street) alle crisi del Sudamerica, alla crisi asiatica (mi ricordo in particolare quella del bath tailandese), al Messico, alla crisi giapponese, alla crisi dei tecnologici, all’11 settembre fino alla grande e lunga crisi del 2007 legata ai mutui sub prime e poi la crisi del debito dei paesi europei PIIGS e quella dei titoli italiani del 2011, una nuova lunga e grande crisi del capitalismo simile a quella degli anni ‘20-30 del secolo scorso, ma di nuovo sempre in una forma diversa.
Sulla crisi economica e sulle politiche per fronteggiare la crisi, ricordo un passo fondamentale che Giorgio Lunghini scrive in “La crisi finanziaria, dai mutui sub-prime al rischio di crisi per l’euro. Le origini, gli effetti, le proposte di intervento in Italia, in Europa, nel mondo”. Associazione per il Rinnovamento della Sinistra e dalla Fondazione Di Vittorio, CNEL, 12 luglio 2012:
È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez-faire.
Il focus dell’analisi della crisi da parte di Giorgio Lunghini riguarda il ruolo centrale svolto dalla teoria economica, con il ritorno al laissez-faire e al neoliberismo (attraverso il monetarismo di Hayek; le critiche ai Keynesiani bastardi più che a Keynes che, secondo Lunghini, ricordo, non è un Keynesiano).
Secondo Giorgio Lunghini, vi è un legame tra teoria economica e politiche economiche che mostra anche una continuità tra la Treasury View del tempo di Keynes, al Washington Consensus del FMI e al recente Bruxelles Consensus.
Egli scrive:
La convenzione su cui si è retto sino a ieri l’equilibrio capitalistico, condivisa dai responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali, dai consigli di amministrazione delle banche e delle grandi imprese, e dagli editorialisti più autorevoli, si può riassumere in queste quattro proposizioni:
- L’economia di mercato è il miglior sistema che si possa concepire: anche grazie alla finanza, essa racchiude in sé le chiavi del progresso materiale e del dinamismo economico e sociale.
- Perché possa dare tutti i suoi benefici, l’economia di mercato deve essere opportunamente gestita e regolata.
- Questa regolazione deve sottostare a due princìpi: condurre una politica monetaria che produca la stabilizzazione dei prezzi; ricercare almeno il pareggio, e se possibile l’attivo, del bilancio pubblico.
- Privilegiare le riforme strutturali che incentivano il lavoro, riducendo i redditi distribuiti dal sistema di previdenza e assistenza sociale.
A queste quattro proposizioni, ne aggiungo una quinta: la distribuzione del reddito e della ricchezza è il portato dei meriti e dei talenti individuali, e dunque non va modificata, se non a favore dei profitti. … Al formarsi di questa convenzione, hanno dato un contributo determinante gli economisti ortodossi (tanto gli economisti teorici, quanto gli econometrici)
(G. Lunghini, “La Teoria generale e i keynesiani: un’eredità giacente”, Accademia nazionale dei Lincei, Convegno internazionale “Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia”, 11 e 12 marzo 2009).
Vorrei tornare, per concludere, alla sua rilettura di Keynes. Il suo Keynes che ricordo e che vorrei qui ricordare è il risultato delle sue riletture più recenti di Keynes.
Secondo Giorgio Lunghini, la Teoria generale di Keynes è stata tradita. Quello che conta in Keynes non sono le politiche fiscali in deficit o lo scavare buche per poi riempirle (un chiaro paradosso da parte di Keynes per mostrare l’inazione da parte delle istituzioni pubbliche). È il Keynes della moneta e delle crisi del capitalismo.
Egli scrive:
La soluzione del problema economico va dunque cercata altrove, non tanto nelle politiche ‘keynesiane’ illustrate nei manuali, magari mediante lo schema IS-LM, o invocate dai neoclassici temporaneamente convertiti, ma in un disegno di politica economica e sociale che si ispiri al capitolo 24 della Teoria generale, sulla Filosofia sociale verso la quale la Teoria generale potrebbe condurre.
(G. Lunghini, “La Teoria generale e i keynesiani: un’eredità giacente”, Accademia nazionale dei Lincei, Convegno internazionale “Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia”, 11 e 12 marzo 2009).
La lettura di Keynes da parte di Giorgio Lunghini si focalizza sulla connessione tra domanda effettiva e conoscenza incerta.
Egli scrive:
In letteratura, e soprattutto nei libri di testo, spesso si discute di quale sia la vera innovazione analitica presente nella Teoria generale: se l’innovazione consista nel principio della domanda effettiva, oppure nella determinazione monetaria del tasso di interesse. La discussione è oziosa, poiché entrambe le categorie, e dunque l’intera Teoria generale, piaccia o non piaccia, e ai più non piace, hanno una fondazione comune, che per brevità e provvisoriamente si può definire di ordine psicologico. Un approccio, questo, guardato con sospetto non soltanto dagli economisti neoclassici cui si indirizza la critica keynesiana, ma anche da molti economisti keynesiani e post-keynesiani. Gli economisti – in generale – preferiscono il ragionamento deduttivo e deterministico.
Giorgio Lunghini ci ha lasciato una grande eredità sia sul metodo da usare in economia che sui contenuti dell’economia. Un’analisi che si deve focalizzare sulla teoria che spieghi le crisi economiche. Questa è un’eredità pesante da portare.
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